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Congo

R.D. CONGO, UNA SITUAZIONE COMPLICATA

L’EMERGENZA NELL’EMERGENZA

In Congo torna l’incubo Ebola. È la stessa Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) a diffondere la notizia, sottolineando che “Il Coronavirus non è l’unica minaccia”. Il Paese che continua ad essere bloccato, rischia di dover convivere con tre virus letali: Covid-19, Ebola e Morbillo. Ogni ritardo e ogni ostacolo dovuto al Covid aumenta il rischio che anche le altre malattie continuino a diffondersi, uccidendo sempre più persone.

In diversi paesi dell’Africa Subsahariana il Covid-19 ha creato un’emergenza nell’emergenza. Nella Repubblica Democratica del Congo negli ultimi giorni sono state riscontrate un’epidemia di morbillo ed un focolaio di Ebola.

La ricerca di misure preventive per ridurre al minimo la diffusione di Covid-19 è fondamentale per proteggere le comunità e gli operatori sanitari in un Paese in cui il sistema sanitario è molto fragile e la popolazione estremamente vulnerabile. Abbiamo visto tutti come in pochi giorni la pandemia abbia quasi portato alla saturazione il sistema sanitario italiano. Quanto tempo ci vorrebbe per portare al collasso le strutture sanitarie presenti in Congo? Dokita ha avviato un progetto finanziato dalla Conferenza Episcopale Italiana (CEI) che prevede l’invio di dispositivi di protezione individuale e attrezzature mediche nella città di Kinshasa.

Negli ultimi mesi abbiamo vissuto uno dei periodi più difficili, particolari e tristi degli ultimi cento anni. Siamo stati costretti a restare in casa per il bene nostro e per quello comune, abbiamo fatto sacrifici per tenere al sicuro le persone più vulnerabili e fragili, molti di noi hanno visto morire parenti ai quali non è stato possibile porgere l’ultimo saluto. Il bollettino delle 18 era diventato l’appuntamento fisso che ci forniva i numeri della pandemia, mostrandoci la violenza di questo pericoloso virus. È stata dura, pian piano ne stiamo uscendo, ma nel mondo la situazione resta tragica.

In Congo, seguire le regole che noi Italiani abbiamo imparato a conoscere in questi ultimi mesi non è affatto semplice:

  • “Restare a casa” è un privilegio per ricchi, dato che molti sono costretti ad uscire per assicurarsi i beni primari;
  • il “Distanziamento sociale” in una metropoli come Kinshasa, con più di 17.000.000 di abitanti e una densità di popolazione di quasi 2000 abitanti per km², è pressoché impossibile;
  • “Lavarsi le mani di frequente” in un paese in cui, anche nella capitale, solo il 30% della popolazione ha accesso all’acqua, non è affatto scontato e spesso significa rinunciare a bere.

La Repubblica Democratica del Congo, come la maggior parte degli stati africani, consapevole della scarsissima rete di servizi sanitari e di strumentazioni ospedaliere è subito corsa ai ripari con misure di contenimento decisamente drastiche. Misure che ovviamente hanno aggravato ancora di più la situazione economica e sociale del Paese, già di per sè drammatica. Da metà giugno nella capitale Kinshasa – epicentro della pandemia di coronavirus nel paese – il governo ha iniziato ad allentare le suddette misure. Durante il lockdown potevano spostarsi esclusivamente gli operatori sanitari e solo una piccola parte degli esercizi essenziali ha potuto proseguire la propria attività.

Le scuole, immediatamente interrotte, hanno ripreso solo per le classi che dovevano sostenere gli esami e dovrebbero ripartire tra settembre e ottobre con il nuovo anno scolastico.
Attualmente la situazione Covid-19 nel paese è meno grave del previsto ma, come sappiamo, con il coronavirus non si scherza ed abbassare la guardia potrebbe essere pericolosissimo.

Dai dati riportarti dalla sede Dokita nella Repubblica Democratica del Congo a metà Luglio si contavano oltre 8000 casi e più di 180 decessi.
Dokita, come molti di voi lettori sapranno, è in RDC dai primi anni 90 con vari programmi tra i quali: l’orfanotrofio Pere Monti che si trova a Kinshasa, attraverso il quale contribuiamo al miglioramento delle condizioni di vita e delle opportunità di inserimento socio-culturale di circa 150 minori a rischio nell’area urbana e il Centro ospedaliero Ngondo Maria, una struttura sanitaria materno infantile situata a Makala sempre nel distretto della capitale, che dal 2006 effettua decine di migliaia di prestazioni l’anno tra visite di medicina generale, prenatale e post natale, medicazioni, analisi cliniche, distribuzione di farmaci e degenza per oltre 100 letti.

Nell’ultimo anno all’interno dell’ospedale è stata realizzata anche una camera mortuaria, importantissima per concedere un rito funebre nel rispetto delle tradizioni e delle norme igienico-sanitarie.

Per quanto concerne l’emergenza Covid-19, Dokita Onlus, grazie al finanziamento dei sostenitori, della Conferenza Episcopale Italiana (CEI) e della Congregazione dei figli dell’Immacolata concezione (CFIC) – sta distribuendo mascherine per il personale sanitario e per i pazienti, guanti, occhiali protettivi, schermi per viso, stivali, grembiuli, gel idroalcolico e sapone liquido (litri). Inoltre per i pazienti ricoverati abbiamo fornito attrezzature per ossigenoterapia, termometri a infrarossi, bombole e concentratori di ossigeno.

Stiamo facendo tutto ciò che è nelle nostre possibilità per frenare, in una zona così fragile, l’avanzata di un virus che sta continuando a minacciare il mondo intero. Tutto questo possiamo continuare a farlo grazie a voi, nella speranza che nel più breve tempo possibile il coronavirus diventi soltanto un brutto ricordo.

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Intervista a DOROTHY O. ONYANGO – Fondatrice di WOFAK

A partire dal 2017 Dokita  avvierà un progetto di collaborazione in Kenya con la ONG locale WOFAK, che da oltre 20 anni opera attivamente per la prevenzione, supporto ed integrazione delle donne affette da HIV.

Abbiamo intervistato la sua fondatrice e direttrice esecutiva, Dorothy O. Onyango, la cui storia è un brillante esempio di forza, coraggio e successo in un paese in cui ancora oggi le donne sieropositive vivono in una condizione di subordinazione, vulnerabilità ed emarginazione.

 

  • Sappiamo che ti è stato diagnosticato il virus dell’HIV nel 1990 e ti avevano dato 6 mesi di vita. Nel 2016 sei ancora qui, in forma e a capo di WOFAK. Cosa ti ha dato maggiormente la forza di reagire ed andare avanti?

Si, mi hanno diagnosticato il virus dell’HIV nel 1990, ma potrei esser stata contagiata anche molto prima. Non è stato un percorso semplice, soprattutto perché lo stigma era molto forte in Kenya ed in quel periodo il governo riempì la città di grandi cartelloni che mostravano l’aspetto di persone sieropositive. Erano ritratti come scheletri coperti da pelle, senza carne. E’ cosi che pensavo sarei diventata, prima o poi.

Nel 1992 mi venne presentata la prima persona che in Kenya affrontò questo argomento e fortunatamente mi informò che ci sarebbe presto stata una conferenza internazionale in Olanda ed una pre-conferenza dove avrebbero partecipato donne affette da HIV provenienti da tutto il mondo e mi invitò a partecipare. Credevo avrei incontrato miserabili donne, malate e con un aspetto scheletrico. Per fortuna non fu così, poiché le donne in Europa potevano giù usufruire di cure adeguate e si erano organizzate fondando dei gruppi di supporto dove condividere e affrontare i loro problemi insieme.

Eravamo 54 donne provenienti da tutto il mondo. Del gruppo di 24 donne provenienti dall’Africa, siamo sopravvissute soltanto in 3 a causa di una un sistema sanitario e di supporto molto scarso, un forte stigma ed isolamento. È qui che ho trovato la mia forza, vedendo donne con la mia stessa malattia, in salute e serene. Ci sono chiaramente anche stati momenti in cui abbiamo versato lacrime ascoltando le storie di alcune donne che raccontavano cosa stavano affrontando all’interno delle loro famiglie e comunità. Questo sta ad indicare l’importanza del supporto psicologico e della condivisione. Ora sono nonna di 2 bambini, i miei 3 figli  sono cresciuti e mi sento ancora molto forte invecchiando serenamente con l’HIV.

 

  • Quale pensi sia lo strumento più adeguato da fornire alle donne in Kenya per uscire dal loro stato di subordinazione e discriminazione?

Credo che lo strumento più appropriato che possa esser dato alle donne in Kenya sia l’indipendenza economica, poiché la maggior parte delle donne sieropositive hanno un stipendio basso o nullo e così non hanno sufficienti mezzi di sostentamento per prendersi cura delle loro vite. Queste donne hanno bisogno di soldi per nutrire i loro bambini, alcune nonne si prendono cura di bambini orfani le cui madri sono decedute a causa del virus ed hanno bisogno di supporto, di cibo e l’unico modo per fornirglielo è finanziandole e permettere loro di iniziare piccole attività economiche e diventare indipendenti.

Inoltre, è fondamentale organizzare gruppi di supporto psicologico in modo che possano essere adeguatamente informate su come poter vivere la loro vita serenamente ed attivamente anche con il virus (ad esempio proseguire gli studi per le giovani ragazze) e su l’importanza di seguire le cure mediche.

Infine bisogna puntare sul rafforzamento delle capacità delle donne di intraprendere ruoli di leadership sia a livello della loro comunità sia ad un livello politico. Questo permetterebbe loro di combattere per i loro diritti.

 

  • Tra le tante difficoltà che sicuramente incontrerete quotidianamente nel vostro lavoro, quale ritieni sia la più ardua?

Il più grande ostacolo che sono costretta ad affrontare ogni giorno a lavoro è la disinformazione, ancora altamente diffusa in Kenya. Spesso incontro malati che non vogliono accettare il loro status da HIV positivo ed ancora credono che il virus sia il risultato di stregoneria o di pratiche rituali e magiche e di conseguenza rifiutano di farsi curare. Ci sono anche persone che non vogliono rivelare di aver contratto il virus al loro partner, aumentando così quindi il rischio di poterlo contagiare.

 

  • Quale pensi possa essere il modo più adeguato e rispettoso per una persona italiana/occidentale che volesse fornire il proprio aiuto alle donne del Kenya e/o alla vostra organizzazione?

Credo che il modo più appropriato per sostenere WOFAK e la nostra causa sia attraverso un supporto economico che psicologico, attraverso gruppi di supporto che permettono di conoscere ed entrare a far parte della nostra associazione.

 

  • Ci racconti una storia di uno dei tanti beneficiari che hai incontrato in questi 20 anni a cui sei particolarmente legata?

I beneficiare della nostra associazioni sono molti ma vorrei raccontarvi la storia di Rebecca Awiti. Appena le fu diagnosticato il virus dell’HIV nel 2002 perse la speranza aspettando solo il giorno della sua morte. Visse per molto tempo in uno stato di rifiuto, isolandosi dai suoi amici e dalla sua famiglia pensando che avrebbero riconosciuto la sua malattia soltanto guardandola. Si rivolse poi ad un centro di aiuto, il quale le consigliò il gruppo di supporto WOFAK. Entrò così a far parte della nostra famiglia, dove incontrò una consulente sociale che descrisse come una persona gentile, bella ed in salute che condivise con lei il suo status da HIV positiva e fu in questo momento che nacque in lei la prospettiva di una rinascita.

Ho incontrato Rebecca personalmente poiché fu interessata ad aiutare altre donne malate e quando WOFAK fu fondata decisi di assumerla come assistente. Dimostrò di avere grandi capacità lavorative e fu così promossa diventando coordinatrice di campo.

Rebecca fu supportata ed informata, le vennero date tutte gli strumenti di cui aveva bisogno per restare in salute ed essere produttiva. Grazie alle informazioni ricevute da WOFAK , decise di diventare mamma e questo avvenne proprio quando il programma di Prevenzione di Trasmissione Madre-Figlio (PMTCT) venne introdotto in Kenya. La introdussi ad una organizzazione con cui noi lavoriamo, chiamata NARESA, che le fornì un supporto specifico durante la gravidanza. Rebecca seguì diligentemente tutti i trattamenti ed appuntamenti di visita e mise alla luce 4 bambini, solo uno dei quali decedette a causa del virus. Gli altri 3, due bimbe ed un bimbo, sono HIV negativi e seguono ora le scuole medie.

Rebecca è una donna che guardo come un esempio e su cui misuro il mio lavoro ed impegno. Quando mi venne chiesto di nominare una donna che aveva seguito il percorso di cura PMTCT con i migliori risultati, nominai proprio lei. Venne selezionata e viaggiò a New York per partecipare e tenere un discorso al World AIDS Day, durante il quale il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-Moon, fu ospite commentando i progressi nella riduzione della trasmissione madre-figlio del virus HIV in molti paesi del mondo.